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Ho letto molti racconti di Raymond Carver; all’inizio mi piacevano ma non ne capivo bene la ragione, poi invece ho capito: i suoi racconti sono semplicemente perfetti. Non necessariamente i più belli in assoluto, o anche solamente belli, solo erano come avrebbero dovuto essere: mai una sbavatura, mai un pensiero di troppo, mai una frase fuori posto.
Oggi lo considero un grande maestro e studio avidamente i suoi consigli, provenienti soprattutto dai suoi seminari di scrittura creativa e dalle molte interviste rilasciate nel corso della sua carriera. Con questo post intendo inaugurare una serie di sette approfondimenti dei suoi pensieri sul mondo della scrittura, organizzati in questo modo:
- Il processo creativo
- L’importanza dell’incipit
- L’impegno
- La riscrittura
- Limare
- La gestione del tempo
- I personaggi
Questo post tratta il modo in cui Carver procedeva per i suoi lavori, ovvero il suo processo creativo:
Mettere nero su bianco
Scrivo la prima stesura, la brutta copia, a mano. La prima versione di un racconto o di una poesia la scrivo molto in fretta: la tiro fuori e la butto sulla pagina. Come diceva Guy de Maupassant, si tratta di “mettere nero su bianco”, buttare giù qualcosa. Dopodiché, tutto è soggetto a cambiamenti, tranne la prima frase: la prima frase di un racconto o il primo verso di una poesia restano quelli. Può darsi che cambino, ma molto, molto raramente. Tutto il resto, invece, è soggetto a cambiamenti. Se riesco a buttare giù la pura e semplice ossatura del racconto, allora sento che prima o poi andrà tutto a posto. Mi piace fare revisioni, riscrivere. Ma mi serve qualcosa da cui partire, ovviamente. Per questo credo di avere sempre un po’ di paura che, se non riesco a buttare giù l’idea in quattro e quattr’otto, andrà persa. Questa paura risale ai tempi in cui mi toccava scrivere a rotta di collo, in circostanze assurde. Oggi non è più così, ovviamente, ma tendo ancora a lavorare in questo modo: butto giù qualcosa molto in fretta e poi lo ribatto a macchina. E una volta che ho un dattiloscritto, posso cominciare a lavorarci sopra. A lavorarci sopra sul serio, intendo.
Questa metodologia di lavoro è molto simie alla mia: la prima stesura è sempre a mano: oltre al piacere fisico che sento scorrendo sul foglio la mina della matita o la punta della penna (sentire piacere = bene), l’azione di scarabocchiare m’aiuta a rilassarmi e a superare alcuni blocchi. Non voglio dire che le idee della trama mi entrano da sole in testa ma se – per esempio – non mi viene una parola, non so come chiudere una frase, o ho dubbi su come impostare un dialogo, allora sì che lo scarabocchio arriva in aiuto (i miei quaderni saranno importante materiale di studio per psicanalisti alieni del futuro).
Per quanto riguarda il suggerimento di buttare giù tutto molto in fretta sono invece più cauto: facendo ricorso a una metafora marinaresca, è corretto non smarrire la rotta per visitare qualche isola minore (a volte scrivo solo il titolo di un’idea con la nota da sviluppare e ci lavoro in un secondo momento) ma non mi piace scrivere in modo trasandato nemmeno la bozza. Se noto che l’impostazione di una frase non mi piace non riesco a lasciarmela alle spalle, la devo sistemare immediatamente… forse perché ho paura che rileggendola una seconda volta possa piacermi, è una falla nel mio scafo: non posso pensare di ripararla più tardi. Questo non toglie che – dopo un lavoro di riscrittura al PC – stampare la prima bozza e armarsi di penna rossa è davvero l’inizio di un lavoro da non prendere sotto gamba.
Infine, non avendo il superpotere del Perfect Incipit: se l’inizio non mi piace, lo cambio senza pietà.
Progettare un racconto
Quando mi metto a scrivere un racconto, non ho nessun tipo di programma. Nel racconto entra un elemento drammatico, ed ecco che le conseguenze e le scelte si presentano da sole.
Non seguo nessun tipo di schema o di progetto. Non ho obiettivi e non ho piani prestabiliti: scrivo storie, tutto qui.
Certo, piacerebbe a tutti mettersi a scrivere e scoprire che le idee sono nascoste nella penna! Scherzi a parte, secondo la mia esperienza quello che dice Carver è sicuramente vero nell’ambito della narrativa breve: spesso per un racconto è sufficiente un buono spunto, e man mano lo sviluppo arrivano nascono nuove idee e si crea un circolo virtuoso. Quando l’ossatura del racconto è definita, terminare la scrittura è un gioco da ragazzi.
Cosa diversa per i romanzi: magari il singolo capitolo lo si scrive in questo modo, partendo quasi dal nulla, ma senza le idee chiare su come dovrà procedere la storia, semplicemente, non si va da nessuna parte. Non voglio dire che ho scritto Pelicula seguendo uno schema fisso, però avevo chiaro sin da subito come sarebbe dovuta essere la storia, lo schema è qualcosa che cresce con il romanzo, deve essere dinamico e più cambia meglio è: vuol dire che abbiamo avuto idee migliori delle iniziali!
La magia della scrittura
Le scelte non le faccio io, credo che mi vengano imposte automaticamente dalla natura del mio materiale e dal mio approccio al materiale stesso. Insomma, io mi equipaggio di tutto punto e parto. Mi piace fare così.
Questa è la grande magia della scrittura: capire che è la storia a scriversi da sola, che noi siamo solo un mezzo perché questo accada, è qualcosa di meraviglioso e inspiegabile. Questo però succede solo quando – citando Carver – si è equipaggiati di tutto punto: ovvero quando abbiamo almeno definito una buona ambientazione e creato personaggi ben caratterizzati. Potrebbe essere anche molto altro, ma probabilmente questo è il punto di partenza.
Simboli
Quando scrivo, non mi pongo il problema di sviluppare dei simboli o di quale funzione avrà una certa immagine. Quando becco un’immagine che mi pare funzioni e rappresenti bene quello che deve rappresentare (poi magari può rappresentare anche tante altre cose), benissimo. Ma non mi ci arrovello sopra. Mi sembra che le immagini si sviluppino o si presentino in tutta naturalezza.
Quando ho detto che studio i suoi consigli non si trattava di un modo di dire: mille volte mi sono chiesto quanto importante fosse la coerenza nella scelta di una simbologia: se – per esempio – scrivo una metafora prendendo in prestito un’immagine dal mondo automobilistico, questo mi può in qualche modo condizionare sul prosieguo della scrittura? Tutte le successive metafore dovranno avere lo stesso tema?
Una risposta me l’ero già data (negativa) e visto che Carver suggerisce che l’importante è che l’immagine funzioni e sia rappresentativa, la mia risposta ne guadagna in autorevolezza.
Prosa barocca
Io mi annoio facilmente, e mi annoio a leggere una prosa che sia troppo contorta o barocca: non ho tanta pazienza, per quel genere di storie. Perciò, nella mia scrittura, credo di aver sempre avuto fretta di andare avanti col racconto, tralasciando i momenti superflui. Mi interessava creare racconti che avessero un funzionamento invisibile. Che funzionassero senza bisogno di intrusioni da parte dell’autore. L’autore doveva semplicemente mettere in moto le cose e lasciare che la storia prendesse vita spontaneamente, badasse da sola ai fatti suoi.
Prima di tutto consideriamo che quello che gli anglofoni chiamano prosa barocca è molto diverso da quello che gli italiani indicano con lo stesso nome. Rispetto all’italiano, l’inglese è una lingua asciutta, molto diretta e – nell’utilizzo quotidiano – meno soggetta a variazioni. Forse non tutti saranno d’accordo a questo mio pensiero molto personalie, ma l’italiano è una lingua molto più ricca dell’inglese (pensiamo solo alle declinazioni verbali) e suscettibile a evoluzioni stilistiche, quindi le parole di Carver sono da leggere anche in quest’ottica. In definitiva, però, sono d’accordo con lui, anche se personalmente – quando è fatta consapevolmente – non rifuggo l’intrusione dell’autore, in alcune condizioni può dare valore alla storia… così come in certe altre ne può togliere. Quindi serve attenzione e parsimonia.
Lavorare sodo
Credo che uno scrittore dovrebbe sempre dare tutto se stesso, qualunque cosa stia scrivendo, che sia un racconto o una poesia, perché bisogna sentirsi come se la sorgente non dovesse mai prosciugarsi: bisogna sempre sentire che si hanno altre frecce al proprio arco. Se uno scrittore comincia a trattenersi, per qualunque ragione, questo può essere uno dei mali peggiori. Io mi sono sempre speso fino in fondo.
Consiglio universale questo, valido in ogni attività dell’uomo: il piacere che si ricava dal far bene un lavoro è la prima ricompensa. Inoltre l’immaginazione di uno scrittore non ha limiti, salvo quelli che si crea egli stesso, quindi pensare che la sorgente possa prosciugarsi non solo è assurdo, ma può influire in maniera negativa sull’esito del suo lavoro.
Spendersi fino in fondo significa anche riuscire sempre a scrivere qualcosa che si vorrebbe leggere.
La sensazione del processo creativo
Sì, penso che scrivere abbia a che fare con una fusione di forma e contenuto. Penso che si tratti di questo, ma anche di una fusione più generale fra tutte le cose. Mi stai chiedendo di descrivere la sensazione che dà il processo creativo, e non sono sicuro di essere in grado di descriverla. Posso solo dire che è una sensazione estetica, intellettuale ed emotiva di coesione, che “tutto tiene”. Sono sicuro che anche i musicisti si sentono così, mentre suonano. E certamente lo stesso vale per gli scrittori, ma non sempre. Vorrei averla sempre, quella sensazione, ma ogni volta dura solo quel tanto che basta per lasciarmi la voglia di provarla di nuovo.
La sensazione che può dare il processo creativo è sicuramente personalissima, e in ogni caso estremamente difficile da comunicare. Un po’ come descrivere la sensazione che si prova camminando all’aria aperta… tanto banale quanto complicata da spiegare.
Per quanto riguarda la scrittura intesa come fusione fra forma e contenuto non posso che essere assolutamente d’accordo: certa narrativa di genere che punta tutto sulla storia ma ha una prosa sciapa ha più il sapore della catena di montaggio che dell’arte, o dell’artigianato.
Distacco e indifferenza
Credo che uno debba avere per forza un certo distacco, se davvero vuole fare lo scrittore. Una volta, in una lettera Čechov ha scritto qualcosa che mi sembra pertinente al riguardo: «L’animo dello scrittore dev’essere in pace, altrimenti egli non può essere imparziale». In un’altra occasione Čechov consigliò a uno scrittore di non cominciare a scrivere finché non si sentisse «freddo come il ghiaccio». Ecco, questo è il distacco.
Quando si scrive narrativa o poesia – o quando si dipinge, si suona o si compone musica – in sostanza succede questo: si è totalmente indifferenti a qualunque cosa, tranne quello che si sta facendo. Alla tela su cu isi sta lavorando, insomma. Ossia, riportando il concetto al mondo della scrittura, totale indifferenza a qualunque cosa tranne che al pezzo di carta infilato nella macchina da scrivere. Capacità di darci dentro come una locomotiva e volontà ferrea, lo sa Dio, è esattamente questo che ci vuole. […] Sono convinto che siano tutte cose necessarie. Anche se la tua automobile ha assolutamente bisogno di una riparazione importante però, come si dice, hai la Musa al tuo fianco, non devi far altro che sederti alla macchina da scrivere e restartene lì e in qualche modo spegnere tutto il resto del mondo, dimenticarti di qualunque altra cosa.
Stiamo vivendo un’epoca sovrabbondante di stimoli, in cui la solitudine è vista di cattivo occhio e la riservatezza è spesso associata alla mediocrità. Invece chi scrive, ma anche chi ripara scarpe o va a pesca, conosce benissimo l’importanza di sapersi isolare, come in meditazione, per compiere il proprio lavoro. In quel momento si vive una realtà sospesa, dove per un po’ gli altri non esistono, dimentichiamo forse anche la nostra stessa esistenza, e tutto quel che conta è racchiuso nello spazio compreso fra la nostra testa e le nostre mani.
In questi giorni sto leggendo un libro su tablet, non credo ripeterò l’esperimento tanto presto: tra notifiche di messaggi, avvisi di batteria scarica e programmi bloccati che richiedono un intervento le interruzioni sono asfissianti. Se questo capitasse durante la scrittura dubito che riuscirei a scrivere frasi di senso compiuto!
Immagino, ricordo, combino
Io immagino, ricordo, combino… come fa ogni bravo scrittore.
Questa è la sintesi perfetta per chiudere l’approfondimento sul processo creativo nella scrittura. Se qualcuno fosse interessato all’argomento possiamo discuterne nei commenti, sia che vi ritroviate con le parole di Carver, sia che non siate assolutamente d’accordo… in ogni caso: perché?
…e così anche tu sei un fan di Carver! Avevo già letto questo tuo post ieri e volevo avere un po’ di tempo per commentarlo.
Un tempo scrivevo solo a penna: tenerne una in mano era una sensazione che adoravo; poi, in effetti, riportando tutto su computer, ho scoperto la rapidità e la comodità dei tasti e la penna è rimasta solo dentro la mia borsa insieme al taccuino. Adesso la mia idea è subito salvata sul pc: scrivo di getto, ma quando ritorno sulla pagina rileggo tutto da capo, se no il seguito non mi riesce bene.
(Se sto scrivendo capitoli di un romanzo, rileggo solo il capitolo di riferimento, ovviamente).
Credo anch’io nella magia della scrittura, nel flusso di pensieri che si materializza in immagini e scene e anch’io sono convinta che uno scrittore che voglia sentirsi tale debba lavorare sodissimo, sempre con lo stesso impegno, la stessa convinzione, la stessa energia, se vuole concludere qualcosa che abbia consistenza e validità.
Comunque, Immagina, Ricordo, Combino mi sembra una sintesi perfetta!
Ciao Marina, grazie per la visita. Ebbene sì: Carver è stato un tassello importante nella mia formazione, grazie alle ristampe che minimum fax fece qualche annetto fa. Quelle copertine così essenziali erano sia accattivanti che rappresentative, davvero degli oggetti ben fatti (giusto per agganciarmi al tema “che cos’è arte” 🙂 )
PS: certo che è la sintesi perfetta, l’ha scritta Carver 😉
Ciao Andrea, veramente interessante questo approfondimento su Carver. Molto tempo fa ho letto “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”; ricordo che ne apprezzai molto la prosa asciutta e quasi distaccata. Oggi, a distanza di anni, non ho difficoltà ad ammettere di essere in debito con quei racconti riguardo al mio modo di scrivere, hai ragione, sono semplicemente perfetti.
I grandi maestri sono come i grandi classici: sempre attuali e di grande insegnamento!